Quello di Raffaele Cataldo è un esordio davvero interessante. Di me non sai, uscito a gennaio per Accento, racconta una storia che dimora su un territorio sdrucciolevole; quello delle relazione che faticano a darsi un nome. Lucio, Davide e Lorenzo – i tre protagonisti – a parti alterne, si inseguono, si trovano ma non si afferrano, e poi scappano. Ecco, Di me non sai è soprattutto un testo di sparizioni e innamoramenti, di ossessioni e inseguimenti, di lutti impossibili da elaborare e di antidoti al dolore.
Davide si innamora di Lorenzo, ma Lorenzo non sa cosa farsene di quell’amore, non sa come si aprano le braccia per riceverlo. Allora, le braccia le chiude, le usa per nascondersi, per portarsi via. Così, Davide rimane a braccia aperte e deve capire cosa farsene di quell’amore. Dove appoggiarlo, a chi darlo. Per questo, si sbriciola in giro. Cerca negli altri l’ombra di Lorenzo, rincorre il suo paradiso, un paradiso perduto. Nella rincorsa, infine, si schianta contro Lucio, che non ha ancora ben capito come si possa amare sul serio, oltre gli schermi. Di fronte a Lucio, questa volta, sarà Davide a scappare.
Abbiamo intervistato Raffaele Cataldo, l’autore.
Raffaele, parliamo di sesso: strumento di conoscenza e campo di battaglia.
Il sesso è un linguaggio: i miei personaggi hanno un modo di comunicare che è molto goffo. Tacciono molto di sé, mentono per il gusto di farlo, non dicono esattamente quello che vogliono dire.
Parlano facendo sesso, quindi?
Sì, ma il sesso è un linguaggio sempre manchevole, non è esaustivo. C’è sempre qualcosa che si perde nella traduzione, c’è sempre un fraintendimento. E là dove non c’è chiarezza, c’è sofferenza.
È un inganno, il sesso. Promette solo paradisi, ma a volte nasconde insidie.
È un equivoco. Lucio e Davide pensano che vedersi nudi possa essere una scorciatoia verso l’intimità più profonda, ma non è scontato.
Qualche giorno fa, una scrittrice mi ha detto che l’amore è una forma ininterrotta di conversazione. Eppure, i tuoi protagonisti amano nel silenzio. Si può amare davvero pur nascondendosi?
Quando si ama, la persona amata è sempre un interlocutore. Anche in assenza, o a distanza, nella nostra testa continuiamo a parlare con quella persona. Guardiamo il mondo anche con i suoi occhi. Quindi sì, l’amore è una forma di conversazione, ma il dialogo deve essere autentico, concreto.
Cioè?
La comunicazione dev’essere più sincera, più onesta, più esplicita. I miei personaggi se ne accorgono troppo tardi. Se se ne fossero accorti prima, avrebbero sofferto meno. Ci sono molte cose che vorrebbero chiedere all’altro, ma hanno paura della risposta e allora ci girano intorno. Utilizzano un linguaggio obliquo, non centrano mai davvero il punto. È questo il dramma: non sanno comunicare, in questo sono molto codardi anche.
Pauline Boss, una psicoterapeuta, parla di perdita ambigua: non un autentico lutto, ma l’assenza di certezza sulla presenza dell’altra persona. Il tuo romanzo è costellato di perdite ambigue: tutti, nelle relazioni, sono evanescenti. Un momento ci sono e il momento successivo non ci sono più. Tutti scappano. Da cosa?
Questa domanda è proprio il motore del romanzo. È un mistero. Ho scelto come esergo un paio di versi di Marina Cvetaeva, che immagina di parlare a qualcuno che cammina sulla sua tomba. Nel romanzo non ci sono lutti concreti, non ci sono tombe né corpi a cui tornare. Ci sono, però, queste assenze ambigue, che rendono ancora più difficile l’elaborazione. Davide, per esempio, per elaborare l’assenza di Lorenzo si getta nel sesso occasionale. Si abbandona ai corpi di altri uomini . Se manca una tomba, tutto il mondo è una tomba. Quelli che rimangono sono infestati da quella assenza.
Chi rimane, tra l’altro, continua a essere innamorato di chi è andato. Perché ci si innamora dei fantasmi?
Amare un fantasma è comodo, permette di non mettersi davvero in gioco. È una sofferenza addomesticabile: sappiamo che un fantasma è un fantasma, che non possiamo raggiungerlo davvero. A volte, come canta Carmen Consoli, ci si sente a proprio agio nel dolore al punto da evitare di cercare la felicità. La felicità fa paura.
A proposito di andare e sparire, un capitolo del romanzo si intitola: «Un posto in cui tornare». A cosa tornano i tuoi personaggi?
Tornano ai luoghi originari, alla campagna pugliese che di giorno è il teatro della rispettabilità, del contadino che lavora la terra, e di notte invece è il palcoscenico della clandestinità. Soprattutto, la campagna nel romanzo è il luogo dell’amore, è un paradiso perduto. È lì che Davide e Lorenzo hanno consumato il loro amore. È lì che Davide torna, quando Lorenzo scompare. Torna a un linguaggio vegetale, che si fa umano. Ritrova nel contatto con la natura qualcosa di quell’amore che è andato perduto. È un ritorno verso l’idillio.
Fa qualcosa di simile anche Lucio.
Sì, Lucio idealizza Davide e lo paragona al mare, ancora una volta alla natura. Al tempo stesso, cerca Davide sullo schermo del computer, nella pornografia. Davide diventa un modello che entra ed esce dallo schermo per avverare le sue fantasie.
Davide torna alla dimensione agreste, Lucio si richiude nel suo immaginario pornografico. Tu dove torni quando hai bisogno di scappare?
A casa. Io abito a Torino da dieci anni quasi, ma sono originario della Puglia. Ho chiamato il paese del romanzo Scappagrano, perché volevo rendere l’idea di un posto da cui fuggire, del desiderio che hanno i ventenni di provincia di andare lontano. Oggi ho voglia di tornare alle mie origini. Questo romanzo è un ritorno alle mie prime scoperte, ai luoghi in cui sono nato e cresciuto.
Per un libro di assenze hai scelto una lingua piena, straripante, una lingua poetica e vivissima. Come ci hai lavorato?
Ho voluto tradurre le sensazioni dei miei personaggi anche attraverso il paesaggio: ecco perché la mia lingua si sofferma sui dettagli vegetali, botanici. Il paesaggio è un protagonista vero e proprio. Volevo che la mia lingua dirottasse l’attenzione verso ciò che non vediamo, verso ciò che sta ai margini, come le erbe spontanee, per esempio. Avevo due paure mentre scrivevo: quella di sembrare voyeuristico, scabroso senza motivo e quella opposta. Temevo, cioè, che la mia storia potesse sembrare troppo sdolcinata, troppo melò. Allora, mentre mi trovavo lì tra Scilla e Cariddi, tra questi due grandi spauracchi, ho deciso di usare il linguaggio in questo modo. La ricerca linguistica mi ha aiutato a equilibrare i miei timori.
Tutto è nato da una poesia, sbaglio?
Sì, ho fatto un po’ di auto-archeologia. Ho riscoperto una mia vecchia poesia, che già riassumeva in nuce tutta la storia. Molte metafore, molte immagini proprie della poesia, sono confluite nel romanzo. La poesia è stata un laboratorio. Mi ha permesso di entrare in contatto con i miei personaggi.
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